Da sempre simbolo, un po’ ovvio e scontato della femminilità, il colore rosa è il protagonista di una bella mostra allestita al FIT (Fashion Istitute of Technology) di New York che si propone di cercare di scardinare questo clichè di genere che fa sì che le bambine vestano di rosa e abbiano giocattoli e quant’altro sempre in questo colore. Ai maschietti non va meglio, a loro è toccato l’azzurro, ma quanto un colore può effettivamente determinare il gender di una persona?
Fino al prossimo 5 gennaio 2019 a “Pink: a history of punk, pretty, powerful color” si cercherà di rileggere il rosa in una chiave slegata al sesso perché, in fondo, è solo un colore a cui però tanti uomini non si avvicinano nemmeno per non essere etichettati quando in Francia alla corte del Re Sole era uno dei colori prediletti dagli uomini e ancora oggi in India è un colore come un altro sia per gli uomini che per le donne. In Occidente, invece, dalla metà del XX secolo si è imposta questa castrante e ridicola convenzione che mette tanti paletti mentali perché limita la libertà di scelta al sesso a cui si appartiene.
Il rosa è un colore quindi ambivalente perché rappresenta la femminilità eppure la ghettizza. Non è bandiera di femminismo perché è un luogo comune da abbattere, il rosa delle Barbie, delle belle donne, in genere bionde come Marilyn Monroe quando canta “Diamonds are a girl’s best friend”.
Eppure ha saputo far parte della cultura punk, ovviamente nella sua forma dissacrata perché è un colore che ha una valenza politica patriarcale. Un colore che in tempi di #me too decisamente stona se legato solo al concetto di genere sessuale. Liberare il rosa dalle catene del pregiudizio di genere è la mission di questa mostra newyorkese che esplora i diversi significati del rosa negli ultimi tre secoli di storia.